Biografia

Nasce a Roma nel 1940. Famiglia originaria delle Marche. La madre Carolina “Lina” Raschi si è diplomata con Maria Montessori da cui ha appreso direttamente il metodo. Il padre Mario, agente di cambio, è l’arbitro di calcio, che ha diretto nel 1944 la storica partita imposta dal presidio tedesco contro i giovani di Sarnano.

 E’in terza elementare che la direttrice ne scopre il precoce talento e lo chiama ad illustrare il giornalino della scuola. Tredicenne è iniziato alla grafica e alla pittura a tempera da Mariano Gavasci, zio paterno,

docente di pittura all’Accademia di belle arti, fratello del poeta e critico d’arte Gildo. Xilografo e pittore fa parte della “colonia” degli artisti marchigiani a Roma (Scipione alias Bonichi, Luigi Bartolini, Sante Monachesi, Orfeo Tamburi, Corrado Cagli). Il giovane Mauro risentirà in questa fase iniziale l’influenza della pennellata del prozio Mariano (1903-1984) ma non il suo cromatismo, preferendogli agli inizi le terre e i bruni di Permeke e del primo Van Gogh.

Dietro l’antico liceo E.Q. Visconti in piazza del Collegio Romano a cui viene iscritto, c’è edificata in attacco la chiesa barocca di S. Ignazio dove Mauro scopre gli strabilianti effetti prospettici della volta, un affresco circolare sopra il centro del transetto, in cui Andrea dal Pozzo (1794) simula con un grandioso trompe-l’oeil una cupola con parte del catino semioscurato da un’ombra fittizia, fittizia come la cupola di cui la chiesa è del tutto priva. Ne rimane incantato, tanto che la “prospettiva” rimarrà un elemento fondamentale di tutta la sua pittura figurativa mentre rifuggirà sempre dalla pittura “piatta” dell’informale.

L’incisione   qui sotto, “Morte dell’anarchico Pinelli” del 1977, che ci ricorda tanto M.C. Escher, ne è un esempio:

Partecipa alle prime mostre studentesche. Nel 1956 vince il III premio con un ritrattino a tempera in biancoe nero su carta, di una compagna di liceo. in una collettiva al Palazzo delle Esposizioni di Roma (ma nelle sale “periferiche” sull’entrata di via del Traforo). Tre anni dopo rappresenta i pittori universitari italiani alla 3a Mostra Internazionale di Ginevra. Giovanissimo è invitato a far parte dell’Accademia di S.Luca.

Nel settembre ottobre 1961, dopo due “pellegrinaggi” a Parigi (ritratto di Georges Braque -collez. Correa- e André Malraux, e due ritratti 50×70 de Il Clarinettista dello Slow Club del 1962) è ad Apeldoorn e ad Amsterdam, tutte mete d’obbligo per un giovane e appassionato esordiente.

Viene ammesso con due opere alla III Rassegna di Arti Figurative di Roma, Palazzo delle Esposizioni (stavolta accesso non più secondario ma ingresso “nobile” sulla scalinata prospiciente via Nazionale!), e alla successiva Quadriennale.

Insieme ad Edolo Masci (scandalizzo’ la sua Annunciazione con la Madonna in minigonna), è il più giovane del gruppo degli artisti “romani” della fine degli anni ’50, Guidi (che risiede spesso anche a Venezia) Fantuzzi, Purificato, Omiccioli, Trevisan, Villoresi, Caffè, Walter Lazzaro, Anna Salvatore, Novella Parigini, Stradone, Tamburi e Sciltian , con i quali ultimi due espone nel marzo dello stesso anno alla Galleria Incontri d’Arte di via Massaciuccoli e dei quali  rispettivamente nel 1971 e 1974 farà il ritratto.

Il “difficile” Piero Scarpa, decano dei critici d’ arte della stampa romana che lo aveva già notato nella mostra del 1956, questa volta lo cita nell’articolo di terza pagina de Il Messaggero insieme a L.Bartolini, G.De Chirico, F.Pirandello, R.Guttuso, O.Tamburi, R.Mafai, G.Cesetti, R. Francalancia, tutti artisti  blasonati e quindi  direttamente “invitati” alla Rassegna, insieme anche a Mariano Gavasci.

Maurelli è invece dovuto passare per la Giuria che gli ha “accettato” tutte e due le opere da sottoporre alla selezione, sono “Le pont du Carrousel “e “Ritratto di adolescente”, che la Commissione di Collocazione a sua volta ha sistemato in una posizione veramente invidiabile. Delirio. Lui ci scherza sopra con lo zio che benchè “invitato” non è presentato così bene

E’ di questo periodo (tra il 1959 e il ’61) un autoritratto ad olio su cartone intelato 40 x 50 che ricorda in modo sorprendente i molteplici “Autoritratto con collo di Raffaello” del 1920-21 del diciassettenne   Salvador Dalì, che però Maurelli vedrà solo trent’anni dopo a Figueres. Gli capiteranno più volte nel corso della sua carriera strane “coincidenze professionali” (del tipo che Jung aveva definito sincronicità anche in senso lato, cioè come premonizioni a….. posteriori, un vero e proprio ossimoro artistico). E’ il caso delle “donne in scatola” di fine anni ’80 e dei telai cioè gli “chassis” delle tele, i “quadri” cioè opere consistenti nella rappresentazione dei…. quadri voltati, il retro del quadro di cui parleremo più oltre!

Intanto espone in collettive e personali nelle gallerie dell’epoca, che gravitano intorno al “tridente”, cioè le tre strade della capitale, via di Ripetta, via del Corso, via del Babuino, che convergono su piazza del Popolo e tanta arte hanno visto passare nel tempo. Sono le gallerie d’arte Russo in piazza di Spagna, l’Attico, la galleria Alibert, all’angolo della via omonima con la via Margutta, la “Portineria” di Mario Puccini al Corso, la Capannina di Porfiri, dove conosce De Chirico e Guttuso, del quale ultimo, insieme ad altri studenti “meritevoli” del liceo artistico, (Maurelli però viene dal classico!), ha l’ambito “privilegio” di pulire i pennelli nello studio di piazza del Grillo, oltre che farne i ritratti.

E’ per Maurelli, che nel frattempo frequenta l’università, la fase della scoperta, della sperimentazione e dei ritratti di artisti e letterati, che incrocia allo storico Caffè Greco, o che si dividono tra i due bar di Piazza del Popolo, il bar Canova (giovani e “ impegnati”) e il Rosati (“conservatori” e consacrati; il poeta Cardarelli preferiva via Veneto)), dove scatta a matita e carboncino le sue istantanee , o che accettano di posare direttamente per lui, come farà più avanti a La Terrasse , al Deux Magots a Parigi e al Jamaica di Milano. Il ritratto e la figura infatti resteranno sempre il suo interesse prevalente.

Lavora anche alla ceramica e alla scultura in terra cotta, in tufo, cemento e gesso armato e crea anche meno auliche e più redditizie bomboniere per cresime e matrimoni!

Cariatide di mare, terra doppia cottura smaltata verderame opaco. Cariatide di terra, biscotto bitumato a freddo.

Purtroppo non resta traccia di un profilo a china fatto alla birreria Vittoria (oggi La Buvette) nella traversa omonima di via Mario de’ Fiori, nei pressi di una rinomata “maison”, a Giorgio de Chirico: una specie di medaglione, di mega moneta cesarea, sul tondo di cartone bianco pressato di una torta pasticcera, nè del ritratto di Philippa, inglese di passaggio a Torvajanica. Olio su tavola, trasmigrato oltre Manica. Nel frattempo si guadagna il titolo di campione italiano di carabina libera, viene selezionato per la squadra italiana delle Olimpiadi di Tokyo del 1964 e poi escluso perchè diserta gli allenamenti causa “distrazioni” sentimentali. Incornicia i primi quadri dalla signora Giosi, una specie di istituzione in via Margutta, dove ancora qualche anno fa potevate vedere l’anziano figlio aggirarsi con l’aria sperduta di chi una volta si sentiva un po’ padrone e poi, con gli anni che passano, un po’ più ospite di una via e una città che cambiano Altro viaggio a Parigi, borsa di studio a Grenoble, laurea in legge con una tesi in Sociologia del diritto francese. Disciplina in Italia praticamente ancora sconosciuta, salvo forse che a Ferrarotti, tant’è che la deve discutere all’Istituto di Filosofia del Diritto, dove per un po’ di tempo fa anche Assistente volontario (oggi si direbbe “ricercatore” ). Praticante procuratore legale si iscrive a scienze politiche, frequenta la scuola del nudo di via Margutta, rileva come socio di minoranza (una sola azione!) un ristorante in piazza Firenze, due passi da piazza del Parlamento e perciò frequentato in maggioranza da parlamentari, giornalisti e portaborse. Nel tentativo di rinnovarne la clientela meridiana, ringiovanire e incrementarne quella serale, insieme ad un amico Fabrizio P., studente delle Belle Arti (poi responsabile della grafica pubblicitaria dell’Istituto Nazionale della Nutrizione) vi installa un forno a legna per pizzeria e arreda il tutto come una galleria d’arte moderna. Scelta decisamente infelice perchè prematura. Risultato: il fallimento, non si rinnova l’una, nè incrementa l’altra. È vero che stanno arrivando gli anni del Piper, tutte le sere viene a cena il complesso rock de I Giganti a cui fa prezzi di favore più per simpatia che per tornaconto. Ma non è sufficiente. Nel marketing ti può capitare sia preferibile prolungare il passato che voler anticipare il futuro. Si inimica l’on. Radi, responsabile amministrativo della Democrazia Cristiana, che trova cara una frittata di due uova per 400 lire, ma si lega di amicizia con Nicola Jaeger professore ordinario di diritto processuale civile all’università di Milano, giudice della Corte Costituzionale, con cui scambia opinioni sul di lui libro Il Diritto nella Bibbia, Giustizia Sociale e Individuale nell’Antico e nel Nuovo Testamento, edizioni Pro Civitate Cristiana Assisi, Nihil obstat del 1960 Ovviamente il ristorante chiude e riaprirà sotto l’insegna “La Pentola” …. chissà se il fantasma del professor Jaeger aleggi ancora lì a chiedersi cosa ci facesse a servire pizze quel laureato 100/110 a disquisire di arte, filosofia e sociologia del diritto piuttosto che di Amatriciana e 4 Stagioni!

L’anno dopo è a Milano per un lavoro meno precario, ma il sabato ne approfitta per “infilarsi” nella classe di incisione di Brera che frequenta di straforo sostituendosi agli studenti assenti (“in quegli anni era un porto di mare!”), poi è di nuovo a Parigi, dove si sposa, alla ricerca perfino presso i bouquinistes dei Lungosenna, di testi dell‘800 introvabili in Italia per la bibliografia della tesi di laurea. Conosce Gino Severini (1963) Massimo Campigli (di cui farà un ritrattino -25×35- nel 1970 rue Delambre al 9). Di ritorno a Milano, apre uno studio-laboratorio in Brera, nella “ringhiera” di via Pontaccio al 3, con altri artisti italiani e stranieri, tra cui Fede Cavalli, ticinese, allieva di Oskar Kokoschka, e la greca Vasso Peklari (v. le sue decorazioni nella metropolitana di Atene inaugurata per le Olimpiadi del 2005), in un sodalizio artistico durato anni. Da allora, pur partecipando a mostre collettive e personali in Italia e all’estero inizia una fase più raccolta e schiva, così schiva al punto di lasciar cadere proposte di stati arabi e singoli notabili, per il timore che l’iconoclastia cultural- religiosa mediorientale potesse ostacolare la sua libertà e passione per il ritratto e la pittura figurativa in genere. Negli anni ’70 prevale l’interesse per la grafica, la sua produzione si concentra sul bianco e nero, soprattutto su linografie dal tratto spesso e grasso di paesaggi italiani e bretoni e puntesecche su plexiglas dove ottiene effetti analoghi all’acquatinta, nonchè un ritorno alle cromie della tempera della sua prima gioventù che espone alla Galerie Capitaine in bvd. Raspail a Parigi, a La Linotte a Lione, a La Trinitè sur Mer, Quiberon, Locmariaquer, senza disdegnare la compagnia di artisti di strada dei mercatini di Plestin Les Grèves e del Finistère.

Tuttociò non gli impedisce di seguire gli eventi domestici che esprime in opere anche di impegno sociale

e politico di cui la tela “In morte di Rodolfo Boschi” (50 x 70 – 1975) è un esempio:

Piazza del popolo - Roma
Omaggio a Joe Tilson olio su tela 70 x 100 - 1980

A metà degli anni ’80, collabora sotto lo pseudonimo di Morlì (pronuncia del cognome Maurelli nel degli amici del periodo… “francese”) ad un mensile milanese con vignette politico-satiriche che gli valsero la reazione scomposta di alcuni piccoli ras della politica locale. In precedenza aveva cominciato a lavorare su un tema antichissimo, un tema caricato nel corso della storia di valori simbolici e metaforici, che reinterpreta con originale creatività.  

 Si tratta del tema del labirinto. Una intensa e originale avventura a cui Maurelli dedicherà un decennio, iniziata con la prima esposizione alla citata Galleria Pontaccio (di Dardi & Uliana misteriosamente scomparso) nel 1976, poi alla Galerie André Weil a Parigi, culminata nel 1981 con la grande esposizione internazionale sul tema dei Labirinti alla Permanente di Milano, che riassume nella tela “Omaggio a Joe Tilson”, attualmente in una collezione privata:

Il materiale usato, oltre il tradizionale colore ad olio,  consiste anche di prodotti speciali elaborati da un industriale milanese delle vernici, l’ing. Guidetti, “Gigi” per gli amici, che adatta per lui delle speciali vernici, ad alto potere coprente, difficili da “gestire” con il normale pennello (la spatola meno che mai), che si muovono sulla tela come  mercurio e se miscelate non obbediscono alle leggi della fisica cioè della complementarietà dei colori,  caratterizzati però, una volta stesi e asciutti, da grande resistenza e stabilità  nel tempo e alla luce. , e da originali effetti smaltati.

Limitandoci al messaggio puramente visivo, estetico ed emotivo, cioè al di qua di complicati significati psicoanalitici, mitici e simbolici (Umberto Eco, Borges…), è come se un drone, un osservatore  sorvolasse e riportasse sulla tela il tracciato di un labirinto più o meno diroccato, un percorso tra le quinte di un labirinto, viste dall’alto, allusioni a muri diversamente colorati, rosso, nero, arancione… come quelli del labirinto  di Cnosso a Creta e relative colonne multicolori dopo il restauro, il tutto con un fuoco della prospettiva coincidente col centro del quadro. Ora immaginate di scompaginare il quadro, cioè il labirinto, in diversi frammenti. Il risultato sarà tanti pezzi, tante quinte tra loro indipendenti, perché ognuna con il “suo” fuoco prospettico e la sua porzione di colori. Un labirinto frantumato in losanghe come il costume colorato di …. Arlecchino!

A completamento del tema del labirinto, una nota biografica particolare, una piccola ma significativa curiosità. Tra i lavori o per meglio dire “appunti” dei primi anni ’50 abbiamo scelto e vi proponiamo un “quartetto” di minuscole tempere su carta di circa cm. 14 x 16: Il Guerriero, L’Artigiano, Il Contadino, Il Filosofo.

Cosa hanno a che vedere queste esercitazioni con i Labirinti di 40 anni dopo? Guardate lo sfondo multicolore di queste composizioni. Noterete che compaiono delle intersezioni di piani, dei diedri cioè le “quinte”, elementi prospettici base, come monadi andranno a costituire per aggregazione i futuri labirinti.

Elementi ripetitivi che ogni autore aggrega e “manovra” ai fini dell’equilibrio compositivo a suo gusto e a suo piacimento, un po’ come “i forchettoni” di Capogrossi, i buchi e i tagli di Fontana, i dripping di Pollock, gli “ zeppi” di Vedova, le “ matasse”di Scanavino etc.

A questo punto dobbiamo registrare nel curriculum di Maurelli una sorta di intermezzo “pour nettoyer la palette”, caratterizzato dal ritorno a temi più tradizionali, quali il ritratto, che peraltro non aveva mai abbandonato, e il nudo femminile. Siamo negli anni ’90 nel pieno della maturità artistica di Maurelli.Il tema del nudo femminile in questo caso, viene elaborato sottoforma delle “donne in scatola”, si tratta di acrilici, nudi di donna in piedi, di spalle incorniciati in trompe-l’oeil dentro il bordo rettangolare e senza fondo di uno scatolone di cartone da imballo.

Maurelli scoprirà solo in un secondo tempo che la fotografa americana Ruth Bernhard aveva anticipato il soggetto, in questo caso però sdraiato e supino, nel 1962 con la foto “In the box, Horizontal”. La Bernhard fa leva sulla contrapposizione tra la rigida “scatola come prigione fisica e mentale” e una “nudità di poetica bellezza in contrasto con la rigida geometria di quella della scatola”.

Al contrario, nei nudi di donna in scatola di Maurelli non c’è questa tensione. Ma non è una carenza bensì una scelta intenzionale. Il personaggio femminile, qui è inserito in un instabile astuccio, tuttaltro che un perimetro freddo e severo, ma in una geometria un po’ sbilenca, quindi non c’è contrapposizione tra morbidezze del nudo e forma che lo contiene, siamo di fronte ad un tesoro racchiuso nei confini di un morbido scrigno. Questi finisce quasi per “sposare” i contorni della modella che vi è incastonata, un separé che la isola non per alienarla bensì per proteggerla.

Aldilà delle modalità tecniche e stilistiche e meno che mai di rivalità o priorità, Maurelli è così colpito da questa involontaria consonanza che, non facendogli difetto una certa dose di umoristico fairplay, intitola una delle sue tele: “In the Box, Vertical. Omaggio a R. Bernhard”, dedicandogliela nel 1991 (acrilico ed olio di 100×120)

All’inizio degli anni ‘90 la creatività di Maurelli si esprime in una nuova suggestiva idea: i “telai”, gli …  “chassis” ovverosia non il “recto” (il fronte) ma il “verso” della tela. Di una moneta diremmo rispettivamente il dritto, la faccia e il suo rovescio ovvero l’altra faccia, di una pagina diremmo fronte e retro. Nella pittura: tela e telaio.

Oggi dispersi in collezioni private, Maurelli li espone per la prima volta nel 1996 negli spazi della Cascina Roma, a Milano.

La rappresentazione de”la parte meno nobile del quadro, il grezzo supporto del messaggio pittorico” e cioè il retro della tela, più che un trompe-l’oeil, è una sorta di “mistero ed esilio della visione”, I “telai” di Maurelli sono da una parte la rielaborazione in chiave esistenziale di un tema minore ma non recente che ha le sue radici nel realismo fiammingo (Cornelis Norbertus Gijsbrechts: “il quadro voltato”, 1670). Dall’altra, sono la rappresentazione visiva del silenzio ottenuta in modi diversi cioè passando, nella trattazione dello stesso tema, dalla figurazione realistica  attraverso il surrealismo del“divertissement” e l’ “amusement” degli “omaggi”, fino alla scomposizione degli elementi del telaio e alla vera e propria astrazione.

Imponente   impresa, anche editoriale è quella che riguarda le grandi tele, olii e acrilici, e un centinaio di disegni preparatori sulla storia del burattino più caro a piccoli e grandi di tutto il mondo, culminata nell’ottobre del 1999 nella mostra di Maurelli al Museo Sala delle Parole e delle Figure di Villa Arcangeli del Parco di Pinocchio su invito della Fondazione Nazionale Carlo Collodi.


Un paio di  questi, sopravvissuti alla dispersione, potete forse ancora trovarli al “Ristorante Pinocchio” di Piero Bertinotti e figlia Paola a Borgomanero, unico tre stelle Michelin italiano. Non li troverete più al ristorante Pinocchio in via Foppa – Milano, che chiudeva il giovedì, tentativo inutile perché   adesso è chiuso del tutto. Al suo posto oggi c’è un cinese.


L’interesse di Maurelli per il burattino era inizialmente di carattere sociologico e psicologico nella convinzione, non solo sua, che il libro sia una lettura più per adulti che per bambini. Basti pensare ai riferimenti al mito di Orfeo, alla metafora delle monete d’oro e dei due scalcagnati ladroni, alla resurrezione da burattino disobbediente a ragazzo perbene.

Il libro è una denuncia involontaria da parte di C. Collodi della società piemontese gretta e puritana, vittoriana nel senso più ampio e del suo conformismo. Maurelli è interessato non alla vicenda della “conversione” del discolo Pinocchio, materia per lo psicanalista di…Carlo Collodi se ne avesse mai avuto uno, ma al Pinocchio che è,  non quello che dovrebbe essere secondo il suo Autore, una volta arrivato al capolinea del bravo bambino sottomesso al modello imposto dalla società piemontese del XIX secolo.


Non è qui il luogo della critica storico-letteraria, ma della critica d’arte. Infatti l’altro motivo di interesse di Maurelli è che nonostante il successo del personaggio di Collodi in tutto il mondo e la divulgazione attraverso tutti i mezzi di comunicazione e arti visive, Pinocchio, a parte l’attenzione di Calder di Giacometti e pochissimi altri, non ha avuto nell’arte moderna lo stesso successo di Arlecchino, Pierrot e Pulcinella che, tanto per fare un esempio per tutti, Picasso ha trattato a iosa mentre  non c’è stata mai una volta che abbia  ricordato Pinocchio: Forse la storia non lo ispirava ?  Il personaggio non era abbastanza versatile? Quindi il tema era sfidante.

Maurelli vince la sfida.

La sua pittura ci da una interpretazione poetica e di colorata fantasiosa tenerezza per un burattino che nelle sue tele è più da capire e perdonare che non da punire. Di questo personaggio così poliedrico e contraddittorio, un egoista generoso, un pavido coraggioso, crudele ma affettuoso, credulone proprio perché bugiardo, ostinato ma volubile, ingenuo e furbo, un allegro triste, Maurelli ci illustra con preziosi accostamenti di colori e il taglio originale del suo schema compositivo, capitolo per capitolo, gli episodi più salienti, ci  restituisce il movimento, la dinamica  della gestualità del personaggio il ritmo delle avventure che vorremmo inesauribili di questo monello praticamente inafferrabile e la magica simpatia delle sue acrobatiche imprevedibili malefatte.

Nella fantasia di Maurelli, i burattini sono trasformati nei personaggi dei fumetti dagli anni ’30 fino ad oggi:

Arcibaldo e Petronilla, l’impiegato Bristow, il Signor Bonaventura e il suo bassotto, Snoopy e Charlie Brown, Mafalda, Olivia e Braccio di Ferro, Tordella, Fortunello, Mio-Mao, Sor Pampurio, Arlecchino etc etc e l’immancabile Mangiafuoco

Pinocchio al teatro dei burattini che gli fanno festa, olio su tela 100x120-Anno1998

Successivamente Maurelli ha ripreso un soggetto che non trattava da quasi mezzo secolo: fiori (gli anemoni sono il suo debole), cestini e la serie de “I girasoli”, raccolti in una mostra alla Marina di Porto Antico di Genova in occasione del Tall Ship dell’aprile 2000, e poi esposti all’ Atelier Torraca di Roquebrune Village, sopra Montecarlo.

Nel giugno 2003 la Banca Popolare di Milano sponsorizza la “Mostra Antologica Ritratti e Figure 1958-2003”, 84 opere che Maurelli espone alla Cascina Roma su invito dell’Assessorato alla cultura di S. Donato Milanese nel maggio/giugno 2003.


Segue nel dicembre 2004 una analoga iniziativa del Comune di Sarnano nella Galleria S.Chiara presso la  Pinacoteca del Museo Civico,  prorogata fino alla Pasqua 2005, in occasione del premio giornalistico intitolato a Leo Birzoli ex vice presidente della Rai  (ed  anche dell’inaugurazione  della Mostra permanente Mariano Gavasci), dove viene presentata una selezione di  50 opere della mostra milanese tra disegni e incisioni, prestiti  di privati o provenienti   dalla   raccolta personale dell’artista  intitolata “ Ritratti e Figure – Mostra Antologica 1957-2005” (Rai 3, TVRS, Corriere Adriatico, Appennino Camerte) biografia  e testimonianza di  un cinquantennio di pittura.

Il “cuore” dell’antologica, oggi nella Sala Consiliare, consistente in 27 ritratti di personaggi storici, italiani e stranieri, del mondo della cultura, della letteratura e dell’arte è stato donato dall’artista a Sarnano con l’impegno della Municipalità a non frazionare la collezione ed esporla in permanenza in detta Sala o altro ambiente museale dello stesso prestigio ed idoneità.

La collezione si apre col ritrattino su tavoletta del cardinale Ottaviani del 1959 (in stile che evoca il ‘400 toscano, Maurelli non potendo all’epoca permettersi una lamina per il bordo/oro della mantella cardinalizia, ne ricreò l’effetto con un pezzo di stagnola ricavato da un pacchetto di  sigarette Macedonia Oro), seguono 2 ritratti di Ungaretti1962 e 1967,  Quasimodo 1962, da Carrà 1968 a De Chirico 1963, da Aragon 1971 a Montale 1971,a Severini 1963, a Morandi 1963, Manzù 1970, Sciltian 1974, Tamburi 1971, Bacon 1971, Borges 1978, Hartung 1986, Buzzati 1973, Turcato, Moravia 1986, Casals 1978, Campigli 1970, la Signora col cappellino blu-alias La Poetessa 2002, più alcuni autoritratti dell’artista.

 La sala è sita nell’antico refettorio del Convento della Chiesa di S. Francesco (1327) a ridosso della cinta muraria della Sarnano medioevale. Aperta negli orari della Pinacoteca, la donazione di Maurelli costituisce anche un “tassello prestigioso nel suggestivo percorso che si snoda annualmente tra le vie del centro storico in occasione della Mostra Mercato dell’Antiquariato e dell’Artigianato, rassegna più importante delle Marche e a livello nazionale” (Corriere Adriatico, Resto del Carlino, il Messaggero)

Ovviamente questa raccolta non può comprendere tutta la produzione ritrattistica di Maurelli, citiamo ad esempio la piccola tela 50 x 40 degli esordi “Dizzy Gillespie e la sua orchestra” del 1960, il ritratto del Clown Charlie Rivel del 1971, vi proponiamo qui delle opere che riflettono i soggiorni dell’artista in Spagna fine anni ’70 e metà anni ’80 e qualche altro ritratto dell’epoca

Possiamo dire che Maurelli abbia praticato tutte o quasi le tecniche pittoriche e grafiche: olio, tempera, acrilico, acquarello, acquaforte, linografia…e tutti i temi della pittura, in sintesi: paesaggio, figura, natura morta.

 

Ma non tutti generi: ad esempio la cosidetta arte sacra (su cui si è concentrata la produzione dell’arte italiana, cioè dall’arte tardo romana, medioevo, rinascimento, manierismo, barocco, neoclassico, e che per tutta la vita ha impegnato anche pittori moderni quali ad es. Mariano Gavasci, Georges Rouault etc.) non lo ha mai particolarmente interessato. Di Maurelli riusciamo a ricordare in tutta la sua carriera, appena una crocefissione, tavoletta (cm 20 x 41) ad olio anni ’50, una madonnina, tempera  su carta in bianco e nero, stesso periodo, che si richiamava ad una analoga xilografia anni ’30 dello zio Mariano suo maestro, un Cristo in croce ad olio sulla diagonale di una tavola di cm 54×87 del 1957 e in tarda età  due grandi tavole una Crocefissione e una Deposizione (non finita, vedi oltre).

Inoltre pur ovviamente apprezzandone l’intima poesia, starei per dire la tenerezza, dei grandi Maestri nella resa di temi classici specifici quali Annunciazione, Natività, Presentazione al Tempio etc., le sue preferenze sono sempre andate a temi drammatici quali Compianto, Deposizione, Crocefissione resi in modo coralmente tragico.

E’ solo in tarda età, cioè cinque anni dopo la morte del padre Mario, da lui assistito fino agli ultimi momenti, che mette mano ad una pala d’altare in cui lo rappresenta e si rappresenta egli stesso in quanto autore dell’opera nei modi piu conformi alla tradizione della pittura italiana

Nella Crocefissione di Sarnano e nella Deposizione (ad oggi non finita) appare evidente l’estraneità di Maurelli a certe rappresentazioni storiche di carattere religioso statiche e ieratiche, talvolta anche un po’ mielose, quanto invece la sua appartenenza al filone degli artisti intesi a suscitare nell’osservatore forti emozioni attraverso l’espressionismo dello stile, il dinamismo e la crudezza dell’azione scenica.

Non si tratta ovviamente di voler schierare e classificare gli artisti ma solo di fornire dei criteri di lettura: il nostro guarda a Giotto, Daddi a Masaccio, anche ai Veneti, all’out-sider Grunewald, a El Greco e a Velasquez.

L’artista parte  da un impianto a prima vista classico di cui si potranno poi scoprire a poco a poco gli elementi innovativi: in primis la profondità dell’inquadratura, con una vivace folla di popolo, dieci personaggi nella loro disperazione più arrabbiati che rassegnati che tumultuano alla base del crocefisso (ma se ne indovinano almeno 12),  costretti in meno di un metro di larghezza della tavola, immaginati sulla cima di un rilievo che si staglia  sullo sfondo di Sarnano, il quale a sua volta è circoncluso da montagne innevate incombenti,  e poi una croce che occupa i due terzi della composizione e la divide  in verticale come un taglio cesareo, per finire con  un cielo che prelude alle cupezze del blu, seminato di una angoscia obliqua , di nuvolastre bianche non del tutto svuotate di neve. Forti contrasti cromatici, contorni del disegno e intersezioni a spigolo vivo che rinviano a vetrate da cattedrale gotica.

Ma ecco improvvisamente una marcata asimmetria. Sul lato destro al posto del carnefice, al posto del classico legionario romano, su tutti i figuranti svetta sì un soldato in evidente posa e sguardo a favore del pittore che lo ritrae, ma si tratta di un gigante in uniforme della Wermacht, tutto guanti, stivali, frustino, pistolone e decorazioni varie dal sorriso piu ebete che compiaciuto.

Un pupazzo verticale intenzionalmente “asimmetrico” che per di più “guarda in macchina” e che tutti notano perche’ attira l’attenzione dell’osservatore come il cavallo al trotto che “rompe” il passo, cioè in questo caso l’ordine della struttura piramidale del racconto.

Maurelli con il traslato del nazista attualizza la storia, aggiorna la figura del carnefice, rende tangibile la metafora del boia.

Un’ultima notazione. E’un quadro di “mani”. Ne contiamo almeno 22. Altrettante nella pala della Deposizione. Nella pittura di Maurelli la mano è vita. E’ nota la sua passione per questo particolare anatomico tanto da farne protagonista esclusivo nel quadro “Carta 77” (olio su tela 70×100 del 1977) eseguito dopo un viaggio in Cecoslovacchia, oppure …comprimarie, se così si può dire, in “La donna oggetto o la lezione di anatomia” (olio su tella 150×120, del 1992- collez.NDC) e in genere in tutta la sua ritrattistica.  Più che una sinfonia di mani, una vera tempesta con cui l’artista fa vibrare tutte le emozioni possibili.

Portata a termine nel 2006 la citata pala d’altare, olio e acrilico su tavola (cm 96×161), sul tema della Crocefissione, Maurelli dopo alcuni anni ne intraprende con La Deposizione un naturale completamento. Composizione costruita a prima vista anch’essa su un impianto tradizionale quattrocentesco, resa in una chiave di moderna dolorosa drammaticità, che Maurelli interpreta in modo del tutto originale, perché al contrario dell’iconografia classica ci mostra Giuseppe D’Arimatea non di fronte ma di schiena che “scende” i gradini di una scala, trasportando su una spalla il Cristo piegato in due mentre Nicodemo è impegnato a tirar giù il patibolo con le mani occupate anche da  tenaglie e chiodi. “Scende ”… non sale, tant’è vero che gli uccellini sulla scala restano tranquili e non volano via. Come lo spettatore noterà anche questo è un quadro di mani (più di 25) con la cui espressività l’artista sottolinea e potenzia la drammaticità del momento. L’opera purtroppo a tuttoggi anno 2025 è ancora incompiuta.

Lo spettatore faccia un confronto tra la Crocefissione e la Deposizione: noterà che la prima è un vero e proprio dipinto, sintesi di disegno e colore, un’opera compiuta, la seconda è un disegno sicuramente robusto e definitivo ma un disegno…. “riempito”. Cioè lo spettatore avveduto si renderà subito conto che gli attuali   improbabili colori costituiscono una stesura meramente provvisoria che “riempie” il disegno, utile ad una prima distinzione delle varie “aree “della composizione.

A parte la mancanza della corona di spine sul personaggio portato a spalla da Giuseppe d’Arimatea, mentre Nicodemo sostiene il patibolo dopo averne schiodato il corpo, risulta evidente l’incongruità dei verdi prato,  azzurri primaverili e cime innevate, mentre il progetto definitivo prevede un cielo livido e tempestoso, una luce cupa, sepolcrale con chiari e scuri molto contrastati, un paesaggio cioè coerente con il dramma  e la tristezza dell’evento,  con lo sgomento e la disperazione  che il disegno dei personaggi già efficacemente rappresenta

Negli stessi anni ricordiamo un acrilico su faesite “Il trio Flanagan (al piano) Reid (contrabbasso) e “Tootie” Heath (percussioni) “ nonchè diversi ritratti, figure, nudi e paesaggi.

Nel 2007 “Nudo sdraiato (in una posa, sottolineamo, quasi unica nella storia della pittura, remake-omaggio di un olio anni ’30 del pittore Mariano Gavasci):

Ritratti e figure tra cui ricordiamo anche il ritratto del Primicerio Don Lino, La sedia rossa, La chaise bleu, il Ritratto della Signora dell’Asso di Picche e l’Assistente del presidente, oltre a diversi olii e acrilici di paesaggi collinari e della costiera adriatica.

Nel ritratto La Signora dell’Asso di Picche, Maurelli recupera come in tutti i suoi ritratti  “gli elementi che l’astrattismo aveva espulso dalla pittura, riassogettando la tecnica all‘arte, rimette l’opera d’arte al servizio dell’uomo, ricostruisce il palcoscenico immaginario originario ancorato alla prospettiva centrale monooculare del Rinascimento, inscrivendolo in un sistema dal “decoro” geometrico e razionale, ma non per questo rigido o privo di fantasia, di mistero e di  qualche licenza poetica  “. Sul finire dello stesso anno eseguiva il Ritratto dell’Assistente del Presidente (alias Ritratto della Sig.a Graziella B.) opera introspettiva e dal tono molto composto, dove coglie la psicologia della donna manager “arrivata”, severa e responsabile, senza nulla togliere alla femminilità del personaggio.

Studi per il ritratto di C. Fruttero olio e acrilico su faesite cm62x67,5 – 2005/06

All’inizio del 2008, riprendendo un modo dei grandi maestri (ricordiamo in particolare Van Dyck e De Chirico) licenzia il doppio “Ritratto del sig. Nicola DC  e del pittore M.Maurelli di sua mano”, in cui per rispondere  al sofisticato incarico del committente, crea una suggestiva allegoria del tempo e dell’amicizia, con nostalgici struggenti rimandi ai temi pittorici dei suoi “periodi” passati, quello dei misteriosi “labirinti”, delle “donne in scatola” e dei “telai” (chassis  – la tela voltata), unendo in una felice sintesi,  invenzione, metafora e introspezione psicologica.

 Nel giugno successivo rivede al Serrone della Villa Reale di Monza l’inciditrice (termine coniato per lei da Giovanni Testori) Federica Galli, reduce dai suoi successi mondiali, dopo quasi vent’anni dal precedente incontro all’ antologica del 1990 al Castello Sforzesco, la assiste nel ciclo di conferenze al pubblico e matura l’idea di un ritratto.

Sulla base dei disegni preparatori, esegue su faesite 80 x 84 uno studio ad olio di grande originalità compositiva e immediatezza con sei ritratti multipli della Galli in diverse pose come aveva già fatto nel 2005/06 per il progetto del ritratto dello scrittore Carlo Fruttero.  Maurelli non è nuovo alla stesura dei ritratti multipli, preliminari ad un ritratto definitivo, come ad esempio quelli fatti per il ritratto di Dario Fo, di Manzu.  

Nel caso della Federica Galli, il progetto si conclude con un ritratto definitivo di 34 x 50 in cui Maurelli ne coglie con vivacità e naturalezza l’espressione penetrante.  Lei fa in tempo a dirgli col respiro che le difetta e quella voce fascinosa e roca corrosa dalla troppo lunga consuetudine con gli acidi delle sue acqueforti: “belli…belli, Mauro, però perché m’hai fatto quel nasone?! “.  Lui amichevolmente provvede alla “correzione” ma non fa in tempo a darle l’opera finita perché Federica Galli Raimondi muore il 6 febbraio 2009.

Le opere più significative del 2009 sono “MPR prende il the – 2”, “La signora MPR a Sarnano d’inverno” e “La dea delle fonti”.

Il primo (60 x 90), che riprende in modo altrettanto personale lo stesso tema di una tela (60 x 80) di sei anni prima, rappresenta una giovane signora seduta sulla consueta sedia di legno a poltroncina tanto cara a Maurelli, in pantaloni grigi e giubino nero dai riflessi vellutati di blu.

 Dalla corolla del colletto, tra un filo di perle, sboccia il viso della modella, incorniciato da una cascata di capelli, non più color rame scuro della prima edizione, ma decisamente cinabro chiaro, con uno sguardo verde mare, non più adolescente, ma altrettanto incantato, trasparente intenso e brillante che dardeggia tra il bordo della terrina del thè e la corta, ombrosa tesa di una calottina fucsia anni ’20. Stesso cappellino, stessa modella che ritroviamo ne “la signora MPR a Sarnano d’inverno” (39 x 42) sullo sfondo dei monti Sibillini innevati, ritratto la cui struttura compositiva (come il ritratto del poeta E. Sanguineti, 31 x 50,5, del 1997)    risulta qui di evidente derivazione dai ritratti del De Chirico anteguerra

La dea delle fonti (100 x 70) ovverosia “omaggio a Corot” merita un’esposizione più diffusa perché è un quadro che dimostra quanto si possa essere originali reinterpretando eppur restando nella tradizione.

La posa è quella della Venere di Urbino del Tiziano (1538) agli Uffizi, o ancora prima (1510) del Giorgione alla Gemaldegalerie di Dresda, ma non cosi distesa, bensì parzialmente ruotata e appoggiata su un fianco a mostrare la natica, un po’ come la Venere che si specchia di Velasquez (1650? – National Gallery, Londra) senza però arrivare a voltarci le spalle. Maurelli ribalta la posa riprendendo pari pari e facendo espresso omaggio a L’odalisca romana (Marietta) un quadretto 44 x 29 di Corot del 1843 al Petit Palais, della quale cita anche il fiore, in questo caso una gerbera, che spagnoleggia tra i capelli della tempia destra sostenuta dalla relativa mano.

 Il torso nudo è appoggiato su cuscini rossi e azzurri, l’avambraccio sinistro è levato, con la mano che si indovina dietro la nuca a sostenere la testa la quale si solleva sul cuscino, il corpo è adagiato su lenzuola azzurre molto mosse e “scolpite” alla Maurelli. Della gamba destra praticamente si vede solo la pianta del piede, così com’è ripiegata sotto la gamba sinistra che si estende per tutta la sua lunghezza.

  Una curiosità: il piede della modella esibisce un alluce valgo che Maurelli rispetta. C’è un illustre precedente, e cioè, guarda caso, la Ninfa della sorgente (un’altra citazione di Maurelli?) di Lucas Cranach il Vecchio, un olio su tavoletta di soli cm. 15,2 x 20,3 al Metropolitan di N.Y.

 Ai piedi della figura, questa volta le tortorelle sono due, lo faccio notare perché il quadro ricorda quello del 2002 e cioè Venere e la tortorella (100 x 70) dove il nudo però è più raccolto, e con la prima collanina cavigliera della storia della pittura, segue analoga impostazione, la finestra che è sulla sinistra qui per più di metà dello sfondo si apre su una vista di Sarnano molto sorprendente.

E’ un quadro allegorico.

Innanzitutto Maurelli crea un paesaggio fantastico pieno di suggestioni assemblando quattro elementi reali di cui uno è il tempietto emblematico delle terme, da cui sgorgano le acque minerali canalizzate dalle sorgenti di Rio Terro, intitolate al frate francescano San Giacomo della Marca  ( + 1476), e gli altri tre  sono degli scorci della Sarnano medioevale, e cioè la via della Costa, la loggia del XIII secolo,  e la strada in pendenza che porta alla chiesa del Carmine con la caratteristica casa che fa da spartivie.

 E’ un quadro nel quadro, dove le timide francescane tortorelle non riescono ad attenuare la tensione di questo notturno con il suo controluce poco metafisico e molto nervoso, dalle figure allungate, che rimandano al Parmigianino e a El Greco, e lo sguardo della dea delle fonti un pò sfrontato dall’aria vagamente interrogativa rivolto allo spettatore e che sembra voler dire: ma quante volte ti devo dire di bussare prima di entrare?! 

Il 2010 registra forse uno dei più bei ritratti della produzione di Maurelli: il Ritratto del Signor Tonino F. olio su tela di cm. 80 x 100 iniziato esattamente un anno prima, firmato e datato 2009, datazione che l’autore non ha mai corretto, mentre sappiamo per certo che c’è stata un’ultima posa intorno alla Pasqua appunto nell’aprile del 2010 quando l’artista si è recato a Sarnano appositamente allo scopo.

Su quest’opera gli studiosi troveranno un ampio e approfondito saggio che include molti riferimenti alla storia della ritrattistica in generale, nonchè richiami più dichiaratamente specifici, sia estetici che tecnici e di contenuto.

Qui ci limitiamo a dire che Ritratto del Signor Tonino F. è il quarto ritratto che Maurelli dedica ad un personaggio sarnanese dopo la trilogia che vede quello del Sindaco Federico Marconi (2005) del giornalista Vermiglio Petetta (2006) e del Primicerio di Sarnano Don Lino Botticelli (2007). 

Un particolare salta agli occhi: il costante richiamo a Sarnano. Una volta il grande pittore americano Edward Hopper ebbe a dire che ai suoi tempi era obbligatorio andare a Parigi, ma che oggi andava altrettanto bene recarsi alla “sua” Hoboken. Ebbene Sarnano è la Hoboken di Maurelli.

 

Su questo sfondo e sotto un ombrello di pini parasole, Tonino, in controluce, siede a tutta figura (solo i piedi sono tagliati fuori del quadro) a gambe accavallate, altro particolare delle pose preferite da Maurelli, un po’ “buttato” all’indietro contro lo schienale della panca.

 

Secondo uno dei suoi schemi preferiti che tra l’altro si rifà al Verrocchio, Maurelli “taglia” la figura seduta rappresentandola quasi per intero, forza la presa dal basso e la monumentalità del personaggio, accentuando la “prua” di ginocchio e gamba sinistra accavallata, sulla destra sottomessa.

 

Senza diminuire la maestria nella resa di luci e ombre e quindi del concorso a tal fine del colore e dei suoi contrasti, è però un quadro tutto giocato sui semitoni, diesis e bemolle. I tasti bianchi, i toni pieni, sono l’impalcatura del quadro, e cioè l’essenziale, il personaggio,la panchina e il Sarnano retrostante, si fondano su una solida meditata strategia grafico compositiva. Ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa.

Discorso a parte meritano i pieni e i vuoti, la scultura, la potenza del panneggio di camicia e pantaloni. Non si può raccontare, E’da vedere.

Paesaggi

Autoritratti

La Cacciata dal Paradiso Terrestre

Non è difficile riassumere 70 e più anni di pittura come quelli di Maurelli, è semplicemente impossibile. 

Quello che possiamo dire è che anche se non ha padroneggiato tutte le tecniche espressive (per es. l’affresco), le ha  però di sicuro  quasi tutte sperimentate  comprese le forme,  e i generi con qualche puntata   anche in arti comunicative limitrofe come la scultura e financo la scrittura. 

Ha sì avuto propensioni o vere e proprie preferenze per specifici temi e tecniche, facilmente identificabili da chi ha scorso queste pagine, ma in generale è sempre restato fedele al dettato di Leonardo: “Farai le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha nell’animo; altrimenti la tua arte non sarà laudabile “e, aggiungerei, allora se non c’è  una figura, dimostrare tutto quello che Tu ,artista, hai nell’animo “tuo” e volontà di comunicare.

Questo è “perché il pittore è signore di tutte le cose che possono cadere in pensiero all’uomo, perciocchè s’egli ha desiderio di vedere bellezze che lo innamorino, egli è signore (se la sua pittura è laudabile, dico io) di generarle”.

Ecco! siamo arrivati al punto! Qual è la “signoria” che Maurelli ci dimostra con questo quadro? Cosa ci vuole comunicare e ci comunica?

In una tela a sviluppo orizzontale di un metro per 80 cm., ci racconta la storia di una vana disperata ricerca della salvezza dopo “La cacciata dal Paradiso terrestre “. Sullo sfondo di un cielo di un intenso viola scuro, l’orizzonte divide un piatto mare chimico, cinabro pallido, immobile serbatoio di morte. Più una vasca di decantazione che mare.

Due personaggi, una donna nuda a tutta figura (Eva?) leggermente china, occupa tutta l’altezza della tela e un uomo (un Adamo o unA-damA?) a mezzo busto (che si indovina) nudo/a anche lui, (o lei?), la segue e sta emergendo dal bordo del precipizio dopo essersi arrampicati presumibilmente ambedue con grande affanno, esausti per lo forzo.

Tant’è che sia Eva che il presunto Adamo approdati sul pianoro, si aggrappano o si appoggiano a delle asperità.

 

Non osiamo chiamarle rocce perché il terreno, dal colore di un improbabile verde vescica non sembra averne la consistenza dato che i piedi della donna sono immersi e come risucchiati fino alle caviglie da una poltiglia o liquame densi appiccicosi e indefinibili che non hanno niente di naturale. I due personaggi indossano maschere antigas a protezione di un’atmosfera pregna più di CO2 e altri gas venefici che di ossigeno e azoto. Come occhi, che non riusciamo a vedere, hanno una coppia di oblò opachi acquosi e madreperlacei che ci rinviano al colore e consistenza delle meduse, immersi nella gomma nera delle maschere antigas. L’impressione suggerita dalla direzione delle posture, e quindi da Maurelli, è che lui guardi lei già in salvo e lei “guardi in macchina” cioè noi. Ambedue tengono una mano sulla testa quasi a proteggersi da qualcosa di incombente o da un dolore già in essere.  Come in uno degli 8 episodi del film Sogni del regista Kurosawa, tutto    ci suggerisce un mondo malato di inquinamento e radioattività   che una volta fu abitabile e bello, verde prato, sullo sfondo di un mare blù e un cielo azzurro pieno di sole, un vero paradiso terrestre. Forse non riflettiamo abbastanza che l’abusata espressione “paradiso terrestre” sta a significare che il nostro paradiso, il paradiso della specie umana era la terra stessa, terra che nella rappresentazione di Maurelli abbiamo oltraggiata, avvelenata, snaturata, trasformata in livido deserto irrespirabile e inabitabile dove due unici superstiti errano smarriti e senza scampo alla ricerca di una impossibile sopravvivenza. A tutto questo l’Artista contrappone la florida anatomia di un’Eva giunonica rosea e opima   dal fianco e seno materni e appetitosi la cui sensualità non riesce a prevalere sull’ angoscia ingenerata nello spettatore e meno che mai risvegliarne il desiderio. Anzi, il Maestro fa leva proprio su questo contrasto di immagini per suscitare ed esaltare nello spettatore il senso di una natura oltraggiata e sterile, per ciò stesso condannata ad un lento ma inevitabile declino e quindi all’estinzione.

Questo il messaggio che Maurelli ci lascia, con una opera bellissima nella sua originale drammaticità.. dove la tragedia era cominciata con una piccola atomica tattica ad effetto limitato e… controllato.

Così almeno ci avevano detto.

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